ARTHUR RIMBAUD
NON SONO VENUTO QUI PER ESSERE FELICE
Corrispondenza (vol. I 1870-1886; vol. II 1887-1891)
a cura di Vito Sorbello
Nino Aragno Editore, 04/2014
collana "Biblioteca Aragno"
Dopo aver dato prova di essere un grande poeta, a soli vent’anni Rimbaud gira le spalle alla letteratura per farsi prima avventuriero di lunghe erranze e poi trafficante di ogni cosa sulle rive del Mar Rosso. Questo abbandono della poesia per molti è rimasto un vero mistero. Un mistero che diventa scandalo quando si scopre ciò che Rimbaud della poesia voleva fare: un’esperienza fondamentale che implicava la totalità della vita e la totalità dell’essere. Rinunciare alla poesia quando si è intravista in essa la possibilità di superare ogni limite, di andare all’estremo, di vedere oltre, di conoscere l’inconoscibile, vuol dire rinunciare alla possibilità di cambiare la vita e condannarsi alla banalità e alla mediocrità di una vita comune, limitando la vita alle sue immediate necessità. Ma questa rinuncia, e il silenzio che ne deriva, affascina per la sua ambiguità. Se per un verso essa appare come un tradimento, un’infedeltà alla possibilità intravista, dall’altro si annuncia come momento superiore in cui la poesia si annette la sua assenza e si stabilisce sul suo rifiuto. Possiamo allora dire che il Rimbaud africano, esploratore avventizio e trafficante d’armi, non fa che perseguire, con altri mezzi e sotto altra forma, la stessa ricerca dell’ignoto del tempo degli splendori poetici. E la corrispondenza africana rivela a volte, sul piano della banalità della vita ordinaria, lo stesso tono secco, perentorio, ostinato, furioso della Saison en enfer o delle Illuminations.
NON SONO VENUTO QUI PER ESSERE FELICE
Corrispondenza (vol. I 1870-1886; vol. II 1887-1891)
a cura di Vito Sorbello
Nino Aragno Editore, 04/2014
collana "Biblioteca Aragno"
Dopo aver dato prova di essere un grande poeta, a soli vent’anni Rimbaud gira le spalle alla letteratura per farsi prima avventuriero di lunghe erranze e poi trafficante di ogni cosa sulle rive del Mar Rosso. Questo abbandono della poesia per molti è rimasto un vero mistero. Un mistero che diventa scandalo quando si scopre ciò che Rimbaud della poesia voleva fare: un’esperienza fondamentale che implicava la totalità della vita e la totalità dell’essere. Rinunciare alla poesia quando si è intravista in essa la possibilità di superare ogni limite, di andare all’estremo, di vedere oltre, di conoscere l’inconoscibile, vuol dire rinunciare alla possibilità di cambiare la vita e condannarsi alla banalità e alla mediocrità di una vita comune, limitando la vita alle sue immediate necessità. Ma questa rinuncia, e il silenzio che ne deriva, affascina per la sua ambiguità. Se per un verso essa appare come un tradimento, un’infedeltà alla possibilità intravista, dall’altro si annuncia come momento superiore in cui la poesia si annette la sua assenza e si stabilisce sul suo rifiuto. Possiamo allora dire che il Rimbaud africano, esploratore avventizio e trafficante d’armi, non fa che perseguire, con altri mezzi e sotto altra forma, la stessa ricerca dell’ignoto del tempo degli splendori poetici. E la corrispondenza africana rivela a volte, sul piano della banalità della vita ordinaria, lo stesso tono secco, perentorio, ostinato, furioso della Saison en enfer o delle Illuminations.