sabato 7 marzo 2015

RODOLFO VITONE: I SUOI PRIMI NOVANT'ANNI - SATURA, GENOVA




RODOLFO VITONE
I SUOI PRIMI NOVANT'ANNI
Associazione Culturale Satura
piazza Stella 5/1 - Genova
7/3/2015 - 18/3/2015

Nel cinquantennio che ci sta alle spalle Genova si è iscritta nelle vicende dell'avanguardia soprattutto per i contributi dati a una situazione che si potrebbe dire, con etichetta larga, "nuova scrittura".
Ci sarebbe, ovviamente, da ricordare anche l'Arte Povera, che nel capoluogo ligure ebbe la sua prima uscita ufficiale, e perfino il battesimo, ma poi migrò altrove.
Invece i protagonisti della “nuova scrittura” sono rimasti più a lungo a covare le loro ricerche nella metropoli chiusa tra monti e mare, e forse per questo portata a schiacciare le proprie energie migliori, nel caso che queste tentino di rimanere in patria, entro una morsa di tradizionalismo.
E proprio all'inizio del cinquantennio in questione ci volle una bella folata temporalesca dall'esterno, per portare aria nuova: si trattò di Eugenio Battisti, piombato nella città ligure con una carica enorme di energie che si espressero in varie iniziative: fra l'altro, la nascita di "Marcatré", di cui Rodolfo Vitone fu il primo editore, rivista pronta a inserirsi nel dibattito della neoavanguardia, accanto al "Verri"; perfino il giovane Celant fece le sue prime apparizioni nel ruolo di allievo prediletto del ciclone-Battisti.
Sferzati da quel pungolo, i genovesi meglio disposti seppero riscuotersi e andare anche oltre, maturando appunto quell'"oltranzismo" che si addice alle situazioni compresse. Qualcosa del genere si potrebbe ripetere per Firenze, che non a caso fu il laboratorio in cui nacque la poesia visiva di Pignotti e Miccini.
Ma gli sperimentatori di Genova intuirono che bisognava fare qualcosa di più, che non bastava cioè allineare parole ed immagini, lasciandole ciascuna nelle forme consuete a una civiltà tipografica avanzata, confermata, più che essere contraddetta dall'avvento dei rotocalchi e da altre forme visive pur sempre affidate alla stampa.
Il materiale verbale doveva ritrovare tutta la sua concretezza, secondo la prospettiva che in effetti era già stata riportata alla poesia "concreta", e entrare nell'opera alla pari con ogni altro materiale di esperienza: questo, in definitiva, il nuovo traguardo cui giunsero in modo precipuo gli sperimentatori genovesi, in quanto il limite storico della poesia concreta propriamente detta era stato quello di lasciare le parole, anzi, le lettere, entro un loro lazzaretto, per evitare che si contaminassero andando in giro per il mondo. Invece i Genovesi non vollero evitare l'impurità, abbatterono i cordoni sanitari, patrocinando la grande commistione reciproca, tra le lettere e tutto ìl diverso da loro. Ecco così le linee di ricerca cui si sono ispirati Ugo Carrega da una parte e gli Oberto, Martino e Anna, dall'altra. Vero è che anche i primi due ad un certo momento obbedirono alla tentazione dell'esodo. Ma altri sono rimasti, come Rodolfo Vitone, a continuare sulla strada del grande missaggio, dove la lettera non arretra di fronte ad alcun passo, per ardito ed estremo che questo possa sembrare. Ci fu una fase di espansione incontenibile, in sintonia con gli happening statunitensi, in cui Vitone portava certe lettere enormi a innestarsi su spettacoli da strada, a siglarli col loro gigantismo, come in altrettanti "rebus" proposti all'attenzione di un popolo di Ciclopi. Infatti una delle costrizioni cui sottoponiamo la popolazione delle lettere è quella di ridurle in dimensioni piccole, lillipuziane, come utensili che non devono dare fastidio, né permettersi di prevaricare.
Ma che cosa succederebbe, se un bel mattino ci svegliassimo, e dovessimo constatare che quei nostri sudditi fedeli (della mente) sono cresciuti, vittime di un'ipertrofia inopinata? Furono quelli gli anni attorno al '68 e dintorni, quando l'intero sistema dell'arte "esplose" fuori dalle misure convenzionali; poi esso "implose", ritornò a proporzioni più usuali ed affabili, e anche Vitone ne ha tenuto conto, non rinunciando però alle mescolanze "impure".
Se ci rivolgiamo alla produzione di questi ultimi anni, constatiamo, innanzitutto, che le lettere non sono ritornate, docili e "pentite", entro i piccoli formati loro assegnati per tradizione, ma al contrario, sono rimaste a giganteggiare, fiere anche di una loro relativa purezza, di elementi pur sempre a matrice concettuale, a definizione pubblica, il che ne fa altrettanti stereotipi.
Quei segni dell'alfabeto sono pertanto, nelle opere di Rodolfo Vitone, come dei guerrieri catafratti, delle salamandre che se ne vanno immuni entro un contesto per parte sua quanto mai profanato, viziato da ogni traccia e umore dell'esistenza: macchie, colate, magari brani di scrittura, ma sorpresa quando anch'essa dà luogo ad un tessuto pittoresco, corroso dagli agenti atmosferici.
Col che si crea una bella dialettica tra elementi rigorosi ed altri invece deliberatamente informi; ed è anche una dialettica tra scale diverse, tra quella grande, "a caratteri cubitali", con cui si presentano le lettere, e le altre successive via via più miniaturizzate, in cui deflagrano tanti minuti accidenti.
È tipico del linguaggio, a ben pensarci, il presentarsi a noi proprio come una serie di scatole cinesi che si susseguono, l'una dentro l'altra.
Forma e materia, in ogni particella verbale, sono come le facce di un Giano bifronte, non c'è l'una senza l'altra; e soprattutto, non c'è elemento alfabetico che non si presti a sollecitazioni in su e in giù: per un verso, è sempre possibile scomporlo ulteriormente, mettendo in mostra la materia che lo costituisce (come sventrare una bambola e farne uscire l'imbottitura); per un altro, si può procedere a riaggregazioni che tentano di restituire il senso là dove dominava l'informale più spinto.
Rodolfo Vitone gioca abilmente su tutte queste possibilità, percorrendole simultaneamente.

(testo critico a cura di Renato Barilli)