MAURO GHIGLIONE
COMPLESSE SPARIZIONI
Galleria Michela Rizzo - Giudecca
Giudecca 800Q - Venezia
28/2/2015 - 24/4/2015
La mostra personale di Mauro Ghiglione, è intitolata Complesse Sparizioni, è un titolo che piacerebbe sia a Paul Virilio, teorico dell’estetica della sparizione, sia a Edgar Morin, teorico dell’intelligenza della complessità.
L’entrata nel contesto in cui accadono, espositivamente, Complesse Sparizioni, confronta subito lo spettatore con un teschio sospeso davanti alla proiezione in loop del film L’Invenzione di Morel, di Emidio Greco: sulla parete, in cui l’ombra del teschio ritorna dipinta d’azzurro, scorrono i fatali incontri del naufrago, in preda alla febbre del desiderio, sfibrato dalla scalata delle rocce dell’inospitale isola di Caponero, sempre più sgualcito nel completo bianco e frustrato dall’indifferenza della seducente, gelida, Faustina.
La comparsa nell’installazione, intitolata Alteratamente sani, anagramma di Settimana eterna, della più inquietante allegoria delle Vanitas, fa cenno immediato ad una storia dove amore e morte coincidono, a partire dal loro statuto di immagine.
Sorprendentemente rassomigliante al naufrago, filmicamente interpretato dall’attore Giulio Brogi, Mauro Ghiglione sembra proporre un autoritratto di cui è insieme autore e spettatore. Come il naufrago, vittima di un amore inafferrabile e non corrisposto, decide di sabotare il congegno mortale di Morel, soltanto dopo, però, aver condiviso la sorte di Faustina, così Mauro Ghiglione riproducendo una fantasmatica dei contatti, decide di sabotare l’opera consegnandola alla corrosione del sale, strappandone l’immagine foto- grafica, scagliandone il potenziale estetico-testimoniale contro la barriera del suono, per entrare in una dimensione altra, in una archeologia del sentire, per sottrarsi alla coazione a ripetere di una vita vissuta come spettacolo, letargicamente affondato nella poltrona di uno space cinema, o duplicato nell’eroe cyber di un video gioco.
Si intitola “1298 anni d’ Europa – (la camicia del filosofo)” l’opera che intende restituire, visualmente, l’identità del pensiero occidentale, allinean- do sulla parete venti formelle di sale rosa dell’Himalaya, dal supporto metallico, su cui sono stati stampati digitalmente i volti di altrettanti filosofi, la cui età, sommata, totalizza appunto i milleduecentonovantotto anni del titolo. La motivazione per cui l’artista ricorre ad un supporto di cloruro di sodio, fatalmente destinato a corrodere, nel tempo, l’immagine riprodotta, ribaltando la metafora del sale della vita in sale della morte, rive- stirebbe la funzione testimoniale di evidenziare, tramite la sparizione progressiva dell’immagine, la persistenza del gesto che l’ha determinata. La selezione dei nomi dei filosofi non è volta a confrontarne e analizzarne il pensiero, ma a sciorinarne, evocativamente, i volti come panni ste- si. Sotto ogni formella-ritratto scorrono, orizzontalmente, venti camicie bianche, rinvianti al camice da lavoro dell’artista o a quello del medico: candidi rimandi simbolici ad una condizione tanto taumaturgica quanto mortifera. Con questo, l’artista intende dire che la morte di tutti i filosofi selezionati, tranne uno, non ne ha azzerato il portato dell’azione in vita. Al di là, infatti, della loro esistenza reale, persiste una realtà di pensie- ro che non ne vanifica la venuta al mondo. L’opera 1298 anni d’Europa, infatti, adombra, sottotraccia, l’interrogativo, dello stesso Edgar Morin, vivente, sulla sostenibilità di un sistema socio-economico orientato verso una crescita tanto indiscriminata quanto illimitata, verso i dibattiti sul diritto alla pace, sulla funzione delle Nazioni Unite, sulle questioni della cosiddetta Guerra giusta , in vista di una riorganizzazione dei rapporti di proprietà e di produzione nell’ambito di una società occidentale a regime capitalistico avanzato.
Di fronte all’ingresso della sala del primo piano campeggia l’opera Image: chiave di lettura della mostra e del pensiero dell’artista, che, nelle per- forazioni laser di un luttuoso schermo nero in forex, realizza una fatale e radicale messa a morte dell’immagine, la cui sparizione accade come collasso nella verbalità immateriale di una luce azzurra, cimiteriale. Ad una certa distanza dalla parete, su sei pannelli aggettanti in ferro, rico- perti di un blu simbolicamente assoluto, transitano le immagini di altrettanti aerei, slittanti oltre il bordo della cornice, ripresi nell’atto, virtualmente seguito dal boato, di infrangere la barriera transonica, di rompere, altrimenti detto, il muro del suono, con forte rimando metaforico all’entrata in una dimensione altra. Dopo lo strappo delle fotografie, è ancora il gesto forte della rottura che diventa opera, che chiede di essere protetto e conservato, è ancora la fotografia che, esorcizzandolo, interrompe la sua continuità con il mondo, spezza il rapporto con il reale. Quale informa- zione deriva da questa provocazione visiva? Ne deriva l’installazione parietale, allestita frontalmente, dei nove moduli, di misura scalare, appesi a bandiera che riportano, in sequenza, l’intaglio delle lettere che formano il neologismo Ininforma, contrazione dei termini ininfluente e informa- zione: ancora azzurre le proiezioni, dipinte sul muro, delle loro ombre. L’interrogativo è, inequivocabilmente, rivolto a chi guarda.
Viana Conti
COMPLESSE SPARIZIONI
Galleria Michela Rizzo - Giudecca
Giudecca 800Q - Venezia
28/2/2015 - 24/4/2015
La mostra personale di Mauro Ghiglione, è intitolata Complesse Sparizioni, è un titolo che piacerebbe sia a Paul Virilio, teorico dell’estetica della sparizione, sia a Edgar Morin, teorico dell’intelligenza della complessità.
L’entrata nel contesto in cui accadono, espositivamente, Complesse Sparizioni, confronta subito lo spettatore con un teschio sospeso davanti alla proiezione in loop del film L’Invenzione di Morel, di Emidio Greco: sulla parete, in cui l’ombra del teschio ritorna dipinta d’azzurro, scorrono i fatali incontri del naufrago, in preda alla febbre del desiderio, sfibrato dalla scalata delle rocce dell’inospitale isola di Caponero, sempre più sgualcito nel completo bianco e frustrato dall’indifferenza della seducente, gelida, Faustina.
La comparsa nell’installazione, intitolata Alteratamente sani, anagramma di Settimana eterna, della più inquietante allegoria delle Vanitas, fa cenno immediato ad una storia dove amore e morte coincidono, a partire dal loro statuto di immagine.
Sorprendentemente rassomigliante al naufrago, filmicamente interpretato dall’attore Giulio Brogi, Mauro Ghiglione sembra proporre un autoritratto di cui è insieme autore e spettatore. Come il naufrago, vittima di un amore inafferrabile e non corrisposto, decide di sabotare il congegno mortale di Morel, soltanto dopo, però, aver condiviso la sorte di Faustina, così Mauro Ghiglione riproducendo una fantasmatica dei contatti, decide di sabotare l’opera consegnandola alla corrosione del sale, strappandone l’immagine foto- grafica, scagliandone il potenziale estetico-testimoniale contro la barriera del suono, per entrare in una dimensione altra, in una archeologia del sentire, per sottrarsi alla coazione a ripetere di una vita vissuta come spettacolo, letargicamente affondato nella poltrona di uno space cinema, o duplicato nell’eroe cyber di un video gioco.
Si intitola “1298 anni d’ Europa – (la camicia del filosofo)” l’opera che intende restituire, visualmente, l’identità del pensiero occidentale, allinean- do sulla parete venti formelle di sale rosa dell’Himalaya, dal supporto metallico, su cui sono stati stampati digitalmente i volti di altrettanti filosofi, la cui età, sommata, totalizza appunto i milleduecentonovantotto anni del titolo. La motivazione per cui l’artista ricorre ad un supporto di cloruro di sodio, fatalmente destinato a corrodere, nel tempo, l’immagine riprodotta, ribaltando la metafora del sale della vita in sale della morte, rive- stirebbe la funzione testimoniale di evidenziare, tramite la sparizione progressiva dell’immagine, la persistenza del gesto che l’ha determinata. La selezione dei nomi dei filosofi non è volta a confrontarne e analizzarne il pensiero, ma a sciorinarne, evocativamente, i volti come panni ste- si. Sotto ogni formella-ritratto scorrono, orizzontalmente, venti camicie bianche, rinvianti al camice da lavoro dell’artista o a quello del medico: candidi rimandi simbolici ad una condizione tanto taumaturgica quanto mortifera. Con questo, l’artista intende dire che la morte di tutti i filosofi selezionati, tranne uno, non ne ha azzerato il portato dell’azione in vita. Al di là, infatti, della loro esistenza reale, persiste una realtà di pensie- ro che non ne vanifica la venuta al mondo. L’opera 1298 anni d’Europa, infatti, adombra, sottotraccia, l’interrogativo, dello stesso Edgar Morin, vivente, sulla sostenibilità di un sistema socio-economico orientato verso una crescita tanto indiscriminata quanto illimitata, verso i dibattiti sul diritto alla pace, sulla funzione delle Nazioni Unite, sulle questioni della cosiddetta Guerra giusta , in vista di una riorganizzazione dei rapporti di proprietà e di produzione nell’ambito di una società occidentale a regime capitalistico avanzato.
Di fronte all’ingresso della sala del primo piano campeggia l’opera Image: chiave di lettura della mostra e del pensiero dell’artista, che, nelle per- forazioni laser di un luttuoso schermo nero in forex, realizza una fatale e radicale messa a morte dell’immagine, la cui sparizione accade come collasso nella verbalità immateriale di una luce azzurra, cimiteriale. Ad una certa distanza dalla parete, su sei pannelli aggettanti in ferro, rico- perti di un blu simbolicamente assoluto, transitano le immagini di altrettanti aerei, slittanti oltre il bordo della cornice, ripresi nell’atto, virtualmente seguito dal boato, di infrangere la barriera transonica, di rompere, altrimenti detto, il muro del suono, con forte rimando metaforico all’entrata in una dimensione altra. Dopo lo strappo delle fotografie, è ancora il gesto forte della rottura che diventa opera, che chiede di essere protetto e conservato, è ancora la fotografia che, esorcizzandolo, interrompe la sua continuità con il mondo, spezza il rapporto con il reale. Quale informa- zione deriva da questa provocazione visiva? Ne deriva l’installazione parietale, allestita frontalmente, dei nove moduli, di misura scalare, appesi a bandiera che riportano, in sequenza, l’intaglio delle lettere che formano il neologismo Ininforma, contrazione dei termini ininfluente e informa- zione: ancora azzurre le proiezioni, dipinte sul muro, delle loro ombre. L’interrogativo è, inequivocabilmente, rivolto a chi guarda.
Viana Conti