mercoledì 4 novembre 2015

LUCIANO FABRO - GALLERIA CHRISTIAN STEIN, PERO




LUCIANO FABRO
Galleria Christian Stein
via Vincenzo Monti, 46 Pero (MI)
28/102015 - 26/3/2016

La Galleria Stein in collaborazione con l’Archivio Luciano e Carla Fabro presenta negli ampi spazi a Pero e nella storica sede di corso Monforte una mostra dedicata a Luciano Fabro (1936-2007) per raccontare le tappe salienti della carriera di uno tra i maggiori artisti del secondo dopoguerra, autentico innovatore della tradizione della scultura italiana.
Nel corso del tempo Fabro si è servito di materiali contrastanti per caratteristiche peculiari: lenzuola e sete (ad evocare la leggerezza ed il rigore dell’arte classica); ferro, piombo, marmo e bronzo (sovvertendone in molti casi peso e consistenza, con invenzioni installative davvero sorprendenti), e vetro, specchio e cristallo. Espandendone con la sua ricerca le possibilità espressive, Luciano Fabro è stato l’artista che ha ripensato la forma scultura in una dialettica aperta o, se si vuole, in un gioco di risonanze e di specchi tra materiali, senso e contesti.
L’estrema tensione concettuale, spesso al limite di una ironica noncuranza, sempre rintracciabile in ogni sua opera a partire dai titoli, è un moltiplicatore di significati, ma non è mai abbandono al probabile e al relativo o al giudizio soggettivo del fruitore. Che ci siano molti punti vista e che l’arte sia uno spazio d’attenzione entro cui si gioca una partita del tutto speciale non significa mai per Fabro cedimento all’imponderabile e al caso. Si può dire che alla pratica dell’installazione tipica dell’Arte Povera di cui fu tra i protagonisti, Fabro abbia sostituito l’idea regolativa dell’habitat, che è quella di un luogo in cui lo spettatore e l’artista si accompagnano in un nuovo regime della visibilità. Si tratta di mettere alla prova la concezione di un’opera d’arte partecipe di uno spazio non più pittorico, ma concreto e reale, in cui l’esperienza del vedere sia ricondotta a una raffinata semplicità. Questa idea rigorosa di un vedere attento e partecipe è la chiave d’accesso alla poetica sperimentale di Luciano Fabro.
Nella serie di opere esposte nella sua prima personale alla galleria Vismara di Milano nel 1965 (mostra ora riproposta nella sede di Corso Monforte) è già evidente l’interesse di Fabro per fenomeni apparentemente semplici e banali, come il modo di comportarsi di un oggetto nello spazio. Tutto il lavoro s’incentra in quei primi anni milanesi, fecondati dall’influenza di Manzoni e Fontana, sulla percezione dell’ambiente nel rapporto tra realtà esterna e interna, sull’idea di opera d’arte quale strumento necessario per leggere l’esperienza e per sviluppare nuovi piani di conoscenza.
Nelle grandi sale a Pero viene invece proposta una rilettura di alcuni tra gli episodi più significativi della ricerca successiva. Nei cicli di opere ormai famose, dalle Italie, ai Piedi, agli Attaccapanni fino ai marmi che guardano alla mitologia greca, Luciano Fabro rende esplicito il suo dispositivo concettuale, ribaltando la funzione simbolica comunemente accettata di forme note, la silhouette delle quali, realizzata in vari materiali, è collocata nello spazio in modi inconsueti e spiazzanti. L’intento è sempre quello di indurre nel fruitore una consapevole esperienza dello spazio, compiuta con tutti i sensi e senza pregiudizi. Ma ora si sviluppa anche una potenza estetica e s’impone una modalità espressiva più dedita alla costruzione di forme nuove. In questi lavori Fabro recupera dimensioni monumentali, una concezione sontuosa e un lavoro artigianale memore della migliore tradizione italiana, ricorrendo a materiali preziosi quali marmo, vetro e seta e, soprattutto, al colore e alla luce. Senza mai rinunciare alla sfumatura ironica e al piglio di sperimentatore incontentabile e imprevedibile. Come se tutto il suo percorso fino alla maturità realizzasse lo scopo della scultura forse più importante e meno esposta, Lo Spirato (1968-73), dove il corpo dell’artista è la traccia fluttuante di un velo di marmo, a scolpire l’assenza che non è un vuoto, ma una piega di senso che si piega e si ripiega nella ricerca di una perfezione mortale.