L’ASSENZA DI KLEIN
In 5118 battute, spazi compresi, Francesco Bonami ha distrutto - in un articolo su “La Stampa” pubblicato il cinque giugno – la nuova edizione di Documenta, firmata da Carolyn Christov-Bakargiev.
All’ex artista e curatore fiorentino verrebbe da ricordare l’evangelico “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, avendo egli allestito nel 2003 la peggiore edizione della Biennale di Venezia degli ultimi cinquant’anni, il cui titolo alludeva ad una indimostrata “dittatura dello spettatore”.
Ma non spiacerebbe, nel contempo, che Bonami fosse chiamato a effondere i suoi umori atrabiliari in una descrizione del modo tenuto dalla Fondazione Cultura nel gestire i propri interventi nel campo dell’arte moderna e contemporanea.
Ciò non accadrà poiché Palazzo Ducale, nonostante il self-convincement di taluni dei suoi amministratori, non è l’ombelico del mondo e neppure di quella platea un po’ snob e un po’ trash che popola le kermesse artistiche, tratteggiata con ironia da Geoff Dyer in “Jeff in Venice, Death in Varanasi”.
Né, per connaturata modestia, ci azzardiamo a far opera di supplenza. Dal muovere qualche osservazione, anche non propriamente elogiativa, non possiamo però esimerci. Ma per farlo dobbiamo porre alcune premesse.
In primis riconosciamo volentieri che, sotto la guida di Luca Borzani e del Consiglio di Amministrazione in carica nell’ultimo quinquennio, complessivamente Palazzo Ducale ha conseguito risultati rimarchevoli, divenendo il principale polo di attrazione culturale di Genova e della Liguria. Che questo sia avvenuto anche per via di taluni fattori favorevoli (posizione centrale, ampiezza e prestigio degli spazi, finanziamenti relativamente congrui) non toglie nulla alla capacità manageriale dimostrata. In altra sede abbiamo sollevato il dubbio che l’eccessiva concentrazione nel Palazzo Ducale di attività e risorse sia, in prospettiva, poco propizia all’innovazione ed alla crescita culturale della città. Ma seguire le implicazioni di questo ragionamento ci allontanerebbe dal tema specifico di queste righe.
Va invece sottolineato come la linea seguita con successo nella gestione Borzani (giustamente confermata) si sia articolata sul modello dell’edutainment. Lungi da noi opporre alle fiumane di pubblico che questa opzione ha richiamato “le ambizioni onanistiche di curatori Savonarola” di cui Bonami fa spregiativa menzione.
Il problema è un altro: si può fare dell’edutainment, nell’ambito dell’arte contemporanea e non solo, in maniera costruttiva e corretta da un punto di vista storico-critico? La risposta affermativa è (o dovrebbe essere) scontata.
L’interrogativo che consegue può essere formulato a un di presso in questi termini: “Allora perché sono state fatte mostre, come quelle curate da Goldin o quella su Fontana, che non soddisfano requisiti minimi di serietà?”.
Per quanto concerne Goldin la risposta è semplice: pochi (o forse nessuno in Italia) sono in grado di autofinanziarsi in maniera consistente e dispongono come lui di entrature atte a procacciare un sufficiente numero di quadri-civetta, opere più o meno apprezzabili dei soliti noti, attorno alle quali costruire improbabili ma scaltrissime e magniloquenti affabulazioni su viaggi, luoghi, vicende biografiche e simili. I numeri dicono che il pubblico ha gradito ma ciò non toglie che con appena un barlume di applicazione si sarebbe potuta raggiungere anche una dignitosa attendibilità.
Per altri episodi (“Fontana Luce e Colore”, “Meditazioni Mediterraneo”) è decisamente più difficile trovare giustificazione: tanto per la prima, incentrata su una scansione cromatica del tutto estranea agli intenti dell’artista, quanto per la seconda, peraltro già ripetutamente presentata altrove, basata su un’interattività di maniera, decisamente poco stimolante.
L’unica esposizione dotata di un impianto consapevole, benché una volta di più consegnata ad un pretesto poco convincente, si può dire sia stata in questi anni “Isole mai trovate”, curata dal Direttore del Museo d’Arte Moderna di Saint-Etienne, Lorand Hegyi.
Oggi, con la rassegna “Yves Klein, Judo e Teatro, Corpo e Visioni”, stiamo toccando il fondo. Non perché non si possano fare mostre documentarie (come questa essenzialmente è, sebbene scarsa anche di documenti) ma perché bisogna dichiararle per tali e non tentare di farle passare sotto le spoglie di grandi eventi internazionali. Ingrandimenti di foto ultranote, filmati altrettanto conosciuti (in parte scaricabili dalla rete), qualche appunto, una installazione che rasenta il falso d’autore. Opere di Klein: nessuna. Discorsi tanti, anche del neo-assessore a Turismo e Cultura (accoppiata deprecabile). Non ci sono soldi, d’accordo (benché i soliti rumors parlino di non risibili finanziamenti da parte di enti e società di mano pubblica e di cospicue royalties corrisposte all'Archive Klein). Ma un minimo di pudore, anche se piuttosto raro sul mercato, di questi tempi, non dovrebbe costare granché.
Sandro Ricaldone
In 5118 battute, spazi compresi, Francesco Bonami ha distrutto - in un articolo su “La Stampa” pubblicato il cinque giugno – la nuova edizione di Documenta, firmata da Carolyn Christov-Bakargiev.
All’ex artista e curatore fiorentino verrebbe da ricordare l’evangelico “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, avendo egli allestito nel 2003 la peggiore edizione della Biennale di Venezia degli ultimi cinquant’anni, il cui titolo alludeva ad una indimostrata “dittatura dello spettatore”.
Ma non spiacerebbe, nel contempo, che Bonami fosse chiamato a effondere i suoi umori atrabiliari in una descrizione del modo tenuto dalla Fondazione Cultura nel gestire i propri interventi nel campo dell’arte moderna e contemporanea.
Ciò non accadrà poiché Palazzo Ducale, nonostante il self-convincement di taluni dei suoi amministratori, non è l’ombelico del mondo e neppure di quella platea un po’ snob e un po’ trash che popola le kermesse artistiche, tratteggiata con ironia da Geoff Dyer in “Jeff in Venice, Death in Varanasi”.
Né, per connaturata modestia, ci azzardiamo a far opera di supplenza. Dal muovere qualche osservazione, anche non propriamente elogiativa, non possiamo però esimerci. Ma per farlo dobbiamo porre alcune premesse.
In primis riconosciamo volentieri che, sotto la guida di Luca Borzani e del Consiglio di Amministrazione in carica nell’ultimo quinquennio, complessivamente Palazzo Ducale ha conseguito risultati rimarchevoli, divenendo il principale polo di attrazione culturale di Genova e della Liguria. Che questo sia avvenuto anche per via di taluni fattori favorevoli (posizione centrale, ampiezza e prestigio degli spazi, finanziamenti relativamente congrui) non toglie nulla alla capacità manageriale dimostrata. In altra sede abbiamo sollevato il dubbio che l’eccessiva concentrazione nel Palazzo Ducale di attività e risorse sia, in prospettiva, poco propizia all’innovazione ed alla crescita culturale della città. Ma seguire le implicazioni di questo ragionamento ci allontanerebbe dal tema specifico di queste righe.
Va invece sottolineato come la linea seguita con successo nella gestione Borzani (giustamente confermata) si sia articolata sul modello dell’edutainment. Lungi da noi opporre alle fiumane di pubblico che questa opzione ha richiamato “le ambizioni onanistiche di curatori Savonarola” di cui Bonami fa spregiativa menzione.
Il problema è un altro: si può fare dell’edutainment, nell’ambito dell’arte contemporanea e non solo, in maniera costruttiva e corretta da un punto di vista storico-critico? La risposta affermativa è (o dovrebbe essere) scontata.
L’interrogativo che consegue può essere formulato a un di presso in questi termini: “Allora perché sono state fatte mostre, come quelle curate da Goldin o quella su Fontana, che non soddisfano requisiti minimi di serietà?”.
Per quanto concerne Goldin la risposta è semplice: pochi (o forse nessuno in Italia) sono in grado di autofinanziarsi in maniera consistente e dispongono come lui di entrature atte a procacciare un sufficiente numero di quadri-civetta, opere più o meno apprezzabili dei soliti noti, attorno alle quali costruire improbabili ma scaltrissime e magniloquenti affabulazioni su viaggi, luoghi, vicende biografiche e simili. I numeri dicono che il pubblico ha gradito ma ciò non toglie che con appena un barlume di applicazione si sarebbe potuta raggiungere anche una dignitosa attendibilità.
Per altri episodi (“Fontana Luce e Colore”, “Meditazioni Mediterraneo”) è decisamente più difficile trovare giustificazione: tanto per la prima, incentrata su una scansione cromatica del tutto estranea agli intenti dell’artista, quanto per la seconda, peraltro già ripetutamente presentata altrove, basata su un’interattività di maniera, decisamente poco stimolante.
L’unica esposizione dotata di un impianto consapevole, benché una volta di più consegnata ad un pretesto poco convincente, si può dire sia stata in questi anni “Isole mai trovate”, curata dal Direttore del Museo d’Arte Moderna di Saint-Etienne, Lorand Hegyi.
Oggi, con la rassegna “Yves Klein, Judo e Teatro, Corpo e Visioni”, stiamo toccando il fondo. Non perché non si possano fare mostre documentarie (come questa essenzialmente è, sebbene scarsa anche di documenti) ma perché bisogna dichiararle per tali e non tentare di farle passare sotto le spoglie di grandi eventi internazionali. Ingrandimenti di foto ultranote, filmati altrettanto conosciuti (in parte scaricabili dalla rete), qualche appunto, una installazione che rasenta il falso d’autore. Opere di Klein: nessuna. Discorsi tanti, anche del neo-assessore a Turismo e Cultura (accoppiata deprecabile). Non ci sono soldi, d’accordo (benché i soliti rumors parlino di non risibili finanziamenti da parte di enti e società di mano pubblica e di cospicue royalties corrisposte all'Archive Klein). Ma un minimo di pudore, anche se piuttosto raro sul mercato, di questi tempi, non dovrebbe costare granché.
Sandro Ricaldone