GRISHA BRUSKIN
a cura di Silvia Burini e Giuseppe
Barbieri
Fondazione Querini Stampalia
Campo Santa Maria Formosa, Castello
5252 - Venezia
11/2/2015 - 13/9/2015
Un misterioso alfabeto
costituito da 160 personaggi: angeli, demoni con il volto di animali, figure
trafitte da un fulmine, uomini che portano sulle spalle la loro ombra, o
scrutano nei segreti del libro. Per la sua prima esposizione a Venezia Grisha
Bruskin, uno dei più importanti artisti russi viventi, apprezzato e riconosciuto
a livello internazionale almeno dalla metà degli anni ’80, ha scelto il progetto
“Alefbet”: cinque grandi arazzi (2,80m x 2,10) rappresentano il cuore della
rassegna, cui si giunge tuttavia esaminando in precedenza i disegni preparatori
dell’artista, i gouaches e 6 straordinari dipinti, ossia le diverse tappe in cui
si è articolato questo complesso e affascinante “archivio del segno”. Una
sintesi densissima, che fa memoria di una millenaria tradizione, quella ebraica
del Talmud e della Kabbalah, nel momento stesso in cui la rivela come possibile
e permanente chiave di lettura simbolica della nostra storia e del nostro
presente. “Alefbet” è una rassegna di eccezionale impatto visivo, che non potrà
lasciare indifferente il visitatore, accompagnato e coinvolto nel percorso da
una serie di originali apparati multimediali, realizzati in collaborazione con
CamerAnebbia-Milano di Marco Barsottini, che evidenzieranno la formidabile
carica narrativa dell’opera di Bruskin.
La mostra è promossa dal Centro
Studi sulle Arti della Russia (CSAR) di Ca’ Foscari, ed è curata da Giuseppe
Barbieri e da Silvia Burini in collaborazione con la Fondazione Querini
Stampalia. Catalogo Terra Ferma, con saggi di Evgenij Barabanov, Giuseppe
Barbieri, Grisha Bruskin, Silvia Burini, Boris Groys, Michail Jampolskij.
Alla fine degli anni ‘50 Bruskin scopre nella tematica ebraica un
soggetto del tutto nuovo per la realtà sociale e l’arte sovietica, dato che in
URSS mancava in modo categorico una qualsiasi forma di vita ebraica quotidiana e
religiosa. Bruskin vi giunge in maniera, per così dire, indiretta: proveniva
infatti sì da una famiglia ebrea, di scienziati, lontana però da problematiche
religiose. La sua comprensione di essere ebreo, la sua ebraicità, avviene perciò
– è lui stesso a ribadirlo più volte - attraverso i libri e i racconti dei
parenti. Un’esperienza che si configura quindi come una vera e propria
“ricostruzione” archeologica, che lo conduce a uno stile particolare e
originalissimo, in cui i frammenti di un passato perduto e riafferrato sembrano
scaturire, almeno inizialmente, da una specie di carnevale pittorico un po’
fiabesco, ricco di motivi allegorici e simbolici ma anche surrealisti.
Un
forte cambiamento, anzi una vera rottura, si registra negli anni ‘80 quando
Bruskin comincia a frequentare i maggiori esponenti della Soc Art, Prigov,
Orlov, Lebedev. Da questo momento il suo stile cambia, e da un primitivismo un
po’ ornamentale giunge a una maniera asciutta che assume il sembiante plastico
dai poster sovietici (nello stesso stile in cui Kabakov fa la serie dedicata
alla Kommunal’ka). L’interesse di Bruskin per la produzione ideologica sovietica
nasce di sicuro in seguito alle frequentazioni con i soc-artisti, ma mentre
Orlov guarda alla monumentalità del regime, Bruskin è più attratto dalle statue
più modeste di pionieri, soldati e lavoratori che abbellivano facciate e parchi
al tempo di Stalin. Ma il tema ebraico non viene dimenticato, anzi rimane in
parallelo alla problematica sovietica: l’artista scrive che tra l’approccio
talmudico e quello marxista c’è molto in comune.
Nel suo Fundamental’nyj
leksikon (1986), una specie di grammatica bruskiniana, origine e sintesi di
tutta la sua lingua, l’artista compie un’opera di sistematizzazione del sistema
segnico sovietico con la stessa accuratezza con cui nella Torah si elencano i
peccati dell’umanità: in ogni celletta c’è una statua di gesso che tiene in mano
un segno visivo, una medaglia, il modellino del mausoleo di Lenin, un segnale
stradale o una carta geografica. Bruskin ricerca in sostanza una lingua meno
esoterica rispetto ad altri suoi compagni, privilegia il racconto, la
narrazione. È come se si presentasse a nome di un archeologo del futuro, che
cerca di comprendere il senso degli artefatti di una civiltà passata. Questa
apertura era dettata anche dalle mutate condizioni politiche. Non c’era più il
pubblico ristretto degli anni ‘70, che spesso coincideva con gli artisti stessi,
per mostre che avevano sede nei loro appartamenti. Ai tempi della perestrojka
invece si afferma finalmente la possibilità di fare mostre in sale espositive e
quindi di esporre lavori anche di grandi dimensioni.
Fundamental’nyj
leksikon fu esposto a Mosca nel 1987, in una sala della Kashirka, la sede degli
episodi artistici più importanti della fine degli anni ‘80, alla mostra
“L’artista e la contemporaneità”. In quella circostanza Bruskin - con il suo
linguaggio nitido e i suoi quadri finemente dipinti – si affermò come l’artista
più importante della perestrojka.
Fu un momento molto importante perché,
nonostante il potere ufficiale cercasse di costruire un caso intorno alla
mostra, una parte dell’opera fu acquistata dal famoso regista Milos Forman che
era stato invitato ufficialmente da Gorbacev e in questo modo cadde il divieto
di esporre arte non ufficiale in URSS. Non solo. Dopo un anno Fundamental’nyj
leksikon ebbe un ruolo fondamentale per il mercato dell’arte russa. A un’asta
diventata famosa di Sotheby’s venne venduto infatti per 200.000 sterline, mentre
poco prima Otvety di Kabakov era stato venduto per appena 38.000 dollari.
Comincia il “boom” russo: Bruskin si trasferisce a New York e inizia ad
aumentare il formato delle figure di Fundamental’nyj leksikon, che divengono
sculture monumentali ma in seguito anche statuette di porcellana e poi arazzi.
Il progetto “Alefbet” è appunto una parte essenziale di questo lungo e complesso
macrotesto bruskiniano. Un alfabeto “cucito”, materico. Un archivio che si fa
testo.
Scrive l’artista che il giudaismo, per ragioni storiche, non ha
creato un corrispettivo artistico equivalente alle sue iniziative spirituali.
«Io ho sempre sentito un vuoto culturale e ho voluto riempirlo con un livello
artistico individuale. Gli ebrei sono il popolo del Libro, il libro è il loro
simbolo fondamentale: il libro è il mondo e il mondo è il libro, il libro è il
proto modello della mia arte e di Alefbet in particolare».
«Mi rapporto ad
Alefbet come a una concezione artistica e nient’altro, come a una sorta di gioco
di biglie. Era importante per me creare qualcosa in forma di pagine, di
palinsesto, di scrittura, di notizia, di commento…. Alefbet è anche scritture
misteriose, rebus, un dizionario mitologico, sviluppa la lingua in un sistema di
simboli e mitologemi, allegorie che bisogna essere capaci di decifrare,
indovinare. Dove occorre trovare la propria personale spiegazione.
Lo sfondo
è rappresentato da scritture e sopra vi sono posizionati i personaggi, che sono
160. Tra di essi non succede nulla, sono solamente rappresentati e sono
collegati dal contesto. Ogni eroe è dotato di un accessorio e diviene una figura
simbolo, una figura mitologema, una di quelle figure che creano una sorta di
dizionario, collezione, alfabeto che in ebraico si dice appunto alefbet.
“Alefbet” è il mio personale commentario al Libro».
L’arazzo è accompagnato
da un commentario ai commentari, che è scritto dall’artista. Lo spettatore,
seguendo la tradizione del Talmud, deve aggiungere i propri commentari ai
commentari dell’artista e in questo modo potrà avvicinarsi alla verità.
“Alefbet” è una sfinge che pone degli enigmi allo spettatore. Usando una
metafora della Kabbalah si può dire che ogni elemento dell’opera, fino al
personaggio più accessorio, è una piccolissima particella del mistero
complessivo della storia, una scintilla di luce. Lo spettatore, muovendosi da un
mitologema a un altro, percependone il senso e le relazioni, mette insieme le
schegge ricostruendo il significato del quadro.
Grisha Bruskin (Grigory
Davidovich Bruskin) nasce a Mosca nel 1945. Nel 1968 termina gli studi presso
l'Istituto tessile di Mosca e l'anno successivo entra nell'Unione degli artisti
dell'URSS. La sua prima mostra personale, allestita nel 1983 a Vilnius, viene
chiusa pochi giorni dopo l’inaugurazione per ordine del Partito comunista
lituano. L'anno successivo un'altra sua mostra, ospitata alla Casa centrale dei
lavoratori dell'arte di Mosca, viene chiusa a un giorno dall'apertura per ordine
della Sezione moscovita del Partito comunista. La sua prima mostra non
censurata, L'artista e la contemporaneità, apre al pubblico nel 1987 presso la
sala espositiva Kashirka di Mosca. Il 7 luglio 1988, in occasione della prima
asta organizzata da Sotheby's a Mosca, sei opere di Bruskin vengono battute a un
prezzo record per l’arte contemporanea russa. Nello stesso anno l’artista prende
la residenza a New York, dove avvia la collaborazione con la Marlborough
Gallery. Nel 1999 realizza su commissione del Governo tedesco il trittico
monumentale La vita sopra tutto per il Reichstag di Berlino. Nel 2005 partecipa
all'imponente mostra collettiva Russia! allestita al Guggenheim di New York. Nel
2012 vince il premio Kandinsky per l'arte russa contemporanea per il progetto
H-Hour. Oggi l'artista vive e lavora a Mosca e New York.
Immagine:
Grisha Bruskin: Metamorfosi, 1992, gouache, 29x25