sabato 27 luglio 2013

SCOMPARSA DI GIANNI BRUNETTI


SCOMPARSA DI GIANNI BRUNETTI

É scomaprso ieri a Genova, Gianni Brunetti.
Lo ricordiamo con uno dei testi pubblicati nel catalogo delle personali tenute fra l'autunno 2012 e l'inverno 2013 presso la Galleria Artré di Genova.

TRA IL LUCIDO E L’OPACO
Nel tracciare – in uno scritto ormai remoto – le coordinate dello spazio in cui si collocava allora (come in realtà ancor oggi si colloca) il suo lavoro, Gianni Brunetti si richiamava metaforicamente all’estensione piana del foglio, ad una pagina dalle facce fra loro dissimili: lucida la prima, nella quale si riflette la teoria; opaca la seconda, dove si realizza la pratica. Uno spazio in cui la contiguità e l’opposizione tra fronte e retro, tra concetto, tecnica e materia, instaura un processo comunicativo: “un comunicare fra me e me”, come annota l’artista, o più precisamente “fra me e altri possibili me”, strutturato sulle interferenze dei linguaggi mentali e visivi, aperto alla fuga delle interpretazioni.
Dopo le esperienze pittoriche condotte nell’arco degli anni ’60, nel decennio successivo il confronto con la fotografia – caratteristico di quel periodo – gli schiude nuove possibilità d’indagine che si concentrano sulle “relazioni interne al materiale”. Rapidamente passa dallo scandaglio di scenari urbani scomposti entro inquadrature impercettibilmente sfalsate condotto nella serie Album Torino (1974) all’estrazione dall’immagine “pre-formata” (come accade nel ciclo Su Finalmarina, del 1976, sviluppato a partire da un gruppo di vecchie cartoline e vicino negli esiti, per alcuni aspetti, alla dimensione della Narrative Art), di frammenti progressivamente ingranditi, sino a smarrire nel reiterato blow-up la loro identificabilità ed a sfaldarsi in un’ambigua astrazione, prossima in certa misura alla parvenza del segno pittorico.
Così, con un finito movimento circolare, i dettagli da principio pressoché invisibili si convertono, attraverso fasi di crescente ampliamento, in figure ove la traccia originaria si smarrisce sgranandosi in un chiaroscuro indefinito, secondo un processo che attraverso la soppressione del referente revoca l’intelleggibilità del significato senza per questo incidere sulla forza comunicativa dell’immagine: “il segno – come annota in altra sede l’autore – è disancorato dalla cosa, è cosa a se stante che rimanda unicamente all’attività della mente”.
Il riferimento geografico, già presente nelle sequenze accennate, si fa più palese nei frammenti di mappe (Rilevazioni) esposti al Mercato del Sale nel 1978: qui Brunetti “raffredda” il brano estratto e ingrandito mediante una rappresentazione esclusivamente grafica, incentrata “non sulle qualità del materiale ma sul suo perimetro”, per approdare quindi, nel grande pannello dei Liguri ad un’evocazione del territorio affidata alla sola elencazione, in rigoroso ordine alfabetico, dei toponimi regionali.
È in questa fase che l’artista mette a fuoco la sua personale concezione dell’arte (“non specchio, non confronto né invenzione, ma assunzione dei segni con cui il mondo è già raffigurato”), scandendola in una serie di considerazioni riprese nel ciclo Scritture e figure (1979), giustapposte, con un effetto di singolare straniamento, alle immagini ancora una volta “pre-formate” di “persone raffigurate nella cartolina della piazza principale della città”.
Se in questa prima fase “l’opera vista come racconto” manifesta una tendenza alla semplificazione, quasi – nelle parole di Brunetti – “un processo di azzeramento”, con Pi Liu Li (1981) si registra una svolta verso un’articolazione di matura complessità. I temi narrativi (una partita a biliardo, un corteggiamento, un balletto d’amore) si moltiplicano e si intrecciano, come pure i linguaggi: scritture lineari, diagrammi, illustrazioni didattiche, note riprodotte da antichi corali si alternano, in un viluppo di analogie e di scarti sottili che coinvolge gli ambiti letterari e musicali, le sfere del gioco e della scienza. Qui le traiettorie e i rimbalzi delle biglie sul piano del biliardo rinviano alla rifrazione della luce e compare il quadrato magico, ascritto da Dürer fra i contrassegni della Melanconia e impiegato da Thomas Mann, via Adorno, come emblema della musica dodecafonica o, nelle parole attribuite ad Adrian Leverkühn, come espressione dell’“antichissimo desiderio di ordinare tutto ciò che suona e di risolvere l’essenza magica della musica in raziocinio umano”.
È attorno al quadrato magico che - a distanza di un ventennio, dopo una parentesi dedicata alla produzione ceramica - prende avvio la seconda fase dell’attività dell’artista, con una sorta di nuovo apprendistato svolto attraverso una serie di Quaderni stilati “come scritture musicali in attesa di trovare strumenti adeguati”, dove le serie numeriche incrociate e reversibili che li compongono acquisiscono una inedita componente cromatica; e con i Mattoni, moduli cubici in ceramica dai riflessi metallici, in cui sono invece impressi a punzone nella materia.
In questo laboratorio la pagina cartacea viene progressivamente soppiantata dalla lamina metallica; al segno grafico si sostituisce l’incisione con gli acidi, in un procedimento scrittorio che si attua nella trasformazione lenta, interminata della materia corrosa. Prende gradualmente forma un nuovo progetto, le Riflessioni dell’artista da vecchio, tuttora in atto, nel quale Brunetti ritma in serie di quattro elementi un tracciato che si snoda dall’individualità dell’autore, connotata mediante la firma, tra i fondamentali della pratica artistica indagati da Kandinsky (punto-linea-superficie), le forme elementari (quadrato-numero-cerchio-figura) e complesse (spirale-danza, costellazione, catalogo), i modi di congiunzione e di azzeramento. In un sistema sapientemente architettato, un vero “sistema di sistemi”, dove i materiali - dal rame allo stagno - e i colori acidi o caldi si alternano nelle diverse stazioni, ciascuna percorsa da un proprio orizzonte, l’artista ricapitola la propria esperienza in una dimensione ad un tempo metalinguistica e sensoriale. “Il mio paesaggio – scrive – è ciò che l’uomo ha prodotto sia come pensiero, sia come manufatto, cioè il linguaggio carico di tutta la sua storia”. Così la lastra incisa è ad un tempo la tavoletta solcata dalla scrittura cuneiforme e una piastra di circuiti elettronici; il metallo, specchio e scudo di Achille: così ancora il cerchio, diviene pittura zen e danza di Arianna; il rosso, affresco pompeiano e una plastica deformata di Burri. In ultimo la stella di Klee (ripresa da Dieser stern lehrt beugen, 1940) si affaccia come emblema dello spirito e del destino. “Non si può fare a meno di tutta questa pienezza, pena un’estetizzante superficialità”, postilla Brunetti. “E tutto questo – sancisce – per tutte le infinite cose”.
-- Sandro Ricaldone