ZYGMUNT BAUMAN
PER TUTTI I GUSTI
Laterza (4 febbraio 2016)
Collana: I Robinson. Letture
I segni distintivi che connotano l’appartenenza a una élite culturale sono oggi un massimo di tolleranza e un minimo di schizzinosità. Lo snobismo culturale consiste nella negazione ostentata dello snobismo. Il principio dell’elitismo culturale sta nella sua capacità di essere onnivoro, cioè di sentirsi di casa in qualunque ambiente culturale senza considerarne nessuno come casa propria, e ancor meno l’unica casa propria. Un recensore e critico televisivo della stampa culturale britannica lodò nel 2007-08 un programma di Capodanno perché prometteva di «offrire un intrattenimento musicale abbastanza vario da soddisfare i desideri di tutti». «Il bello di questa offerta universale», spiegava, «sta nel fatto che puoi entrare e uscire dal programma a seconda di quello che preferisci».
È, questa, una lodevole e di per sé ammirevole qualità dell’offerta culturale, in una società in cui le reti sostituiscono le strutture, e il gioco ininterrotto di collegarsi e scollegarsi da quelle reti e la sequenza interminabile di connessioni e disconnessioni prendono il posto della determinazione, della lealtà e dell’appartenenza. Le tendenze qui descritte presentano anche un altro aspetto: una delle conseguenze di aver liberato l’arte dalla funzione gravosa che le era assegnata in passato è la distanza, spesso ironica o cinica, assunta nei suoi confronti dai suoi creatori come dai suoi destinatari. L’arte, quando se ne parla, raramente ispira quel tono devoto o reverenziale così comune nel passato. Non ci si azzuffa. Non si erigono barricate. Niente scintillare di lame. Se pure si discute della superiorità di una forma d’arte su un’altra, se ne parla senza passione o verve; e i proclami di condanna e le diffamazioni sono più rari di quanto fossero mai stati prima.
Dietro questo stato di cose si nascondono imbarazzo, mancanza di fiducia in sé stessi, un senso di disorientamento: se gli artisti non hanno grandi e importanti compiti da realizzare, se le loro creazioni non hanno altro scopo che portare fama e fortuna a pochi eletti e divertimento e piacere personale ai loro beneficiari, come possiamo giudicarli se non attraverso la montatura pubblica che di solito li accompagna in un determinato momento? Come Marshall McLuhan riassunse acutamente questa situazione, «l’arte è una cosa con cui ce la si cava sempre». O come Damien Hirst, divenuto negli ultimi tempi il beniamino delle gallerie d’arte più in voga a Londra e di coloro che possono permettersi di esserne clienti, ammise candidamente quando ricevette il Turner Prize, il prestigioso premio d’arte britannico: «È impressionante quanto si può fare con una sufficienza stiracchiata in Arte al liceo, un’immaginazione contorta e una motosega». Le forze che guidano la graduale trasformazione del concetto di ‘cultura’ nella sua incarnazione liquido-moderna sono le stesse forze che favoriscono la liberazione dei mercati dalle loro limitazioni non economiche, principalmente sociali, politiche ed etniche.
L’economia liquido-moderna, orientata al consumo, si basa su un surplus di offerte, sul loro rapido deperimento e sul prematuro appassimento dei loro poteri di seduzione. Poiché è impossibile sapere in anticipo quale tra i beni e i servizi in offerta si rivelerà abbastanza allettante da accendere il desiderio dei consumatori, l’unico modo per separare la realtà dal wishful thinking è di moltiplicare i tentativi anche a rischio di incorrere in costosi errori. È essenziale fornire ininterrottamente nuove offerte per alimentare un più rapido avvicendamento di beni, con un intervallo di tempo sempre più breve tra il loro acquisto e il loro abbandono, seguito dalla sostituzione con beni ‘nuovi e migliori’; ed è essenziale anche per evitare una situazione in cui un’ulteriore delusione verso specifici beni si trasformi in una delusione generale verso una vita tutta intessuta e ricamata col filo del fervore consumistico sulla tela delle reti commerciali. La cultura assomiglia oggi a uno dei reparti di un mondo modellato come una specie di grande magazzino in cui si aggirano persone trasformate in puri e semplici consumatori. Come in ogni altro reparto di questo grande magazzino, i suoi scaffali straripano di cose attraenti che vengono cambiate ogni giorno, e le casse sono addobbate con le ultime promozioni, che svaniranno immediatamente dopo proprio come le novità invecchiate che pubblicizzano. I prodotti esposti sugli scaffali, al pari delle pubblicità alle casse, sono calcolati per suscitare capricci irrefrenabili, ma per loro natura momentanei (per dirla con la famosa frase di George Steiner, «fatti per avere il massimo impatto e un’istantanea obsolescenza»).
I venditori dei beni e gli autori delle pubblicità dipendono da un matrimonio dell’arte della seduzione con la spinta dei potenziali clienti a ricercare l’ammirazione dei loro pari e godere la sensazione della propria superiorità. Riassumendo: nella modernità liquida la cultura non ha un ‘volgo’ da illuminare ed elevare; ha, invece, clienti da sedurre. La seduzione, al contrario dell’illuminismo e della elevazione, non è un compito che si esaurisce una volta raggiunto l’obiettivo, che si realizza una volta per tutte, ma è un’attività con un orizzonte aperto. La funzione della cultura non è di soddisfare bisogni esistenti, ma di crearne di nuovi, pur mantenendo allo stesso tempo bisogni già radicati o permanentemente insoddisfatti. La sua principale preoccupazione è di impedire che prenda piede un senso di soddisfazione tra quelli che erano i suoi soggetti e operatori, trasformati ora in clienti, e soprattutto di contrastare una loro gratificazione perfetta, completa e definitiva, che non lascerebbe spazio ad ulteriori bisogni e capricci, nuovi e ancora non soddisfatti.
- Zygmunt Bauman
PER TUTTI I GUSTI
Laterza (4 febbraio 2016)
Collana: I Robinson. Letture
I segni distintivi che connotano l’appartenenza a una élite culturale sono oggi un massimo di tolleranza e un minimo di schizzinosità. Lo snobismo culturale consiste nella negazione ostentata dello snobismo. Il principio dell’elitismo culturale sta nella sua capacità di essere onnivoro, cioè di sentirsi di casa in qualunque ambiente culturale senza considerarne nessuno come casa propria, e ancor meno l’unica casa propria. Un recensore e critico televisivo della stampa culturale britannica lodò nel 2007-08 un programma di Capodanno perché prometteva di «offrire un intrattenimento musicale abbastanza vario da soddisfare i desideri di tutti». «Il bello di questa offerta universale», spiegava, «sta nel fatto che puoi entrare e uscire dal programma a seconda di quello che preferisci».
È, questa, una lodevole e di per sé ammirevole qualità dell’offerta culturale, in una società in cui le reti sostituiscono le strutture, e il gioco ininterrotto di collegarsi e scollegarsi da quelle reti e la sequenza interminabile di connessioni e disconnessioni prendono il posto della determinazione, della lealtà e dell’appartenenza. Le tendenze qui descritte presentano anche un altro aspetto: una delle conseguenze di aver liberato l’arte dalla funzione gravosa che le era assegnata in passato è la distanza, spesso ironica o cinica, assunta nei suoi confronti dai suoi creatori come dai suoi destinatari. L’arte, quando se ne parla, raramente ispira quel tono devoto o reverenziale così comune nel passato. Non ci si azzuffa. Non si erigono barricate. Niente scintillare di lame. Se pure si discute della superiorità di una forma d’arte su un’altra, se ne parla senza passione o verve; e i proclami di condanna e le diffamazioni sono più rari di quanto fossero mai stati prima.
Dietro questo stato di cose si nascondono imbarazzo, mancanza di fiducia in sé stessi, un senso di disorientamento: se gli artisti non hanno grandi e importanti compiti da realizzare, se le loro creazioni non hanno altro scopo che portare fama e fortuna a pochi eletti e divertimento e piacere personale ai loro beneficiari, come possiamo giudicarli se non attraverso la montatura pubblica che di solito li accompagna in un determinato momento? Come Marshall McLuhan riassunse acutamente questa situazione, «l’arte è una cosa con cui ce la si cava sempre». O come Damien Hirst, divenuto negli ultimi tempi il beniamino delle gallerie d’arte più in voga a Londra e di coloro che possono permettersi di esserne clienti, ammise candidamente quando ricevette il Turner Prize, il prestigioso premio d’arte britannico: «È impressionante quanto si può fare con una sufficienza stiracchiata in Arte al liceo, un’immaginazione contorta e una motosega». Le forze che guidano la graduale trasformazione del concetto di ‘cultura’ nella sua incarnazione liquido-moderna sono le stesse forze che favoriscono la liberazione dei mercati dalle loro limitazioni non economiche, principalmente sociali, politiche ed etniche.
L’economia liquido-moderna, orientata al consumo, si basa su un surplus di offerte, sul loro rapido deperimento e sul prematuro appassimento dei loro poteri di seduzione. Poiché è impossibile sapere in anticipo quale tra i beni e i servizi in offerta si rivelerà abbastanza allettante da accendere il desiderio dei consumatori, l’unico modo per separare la realtà dal wishful thinking è di moltiplicare i tentativi anche a rischio di incorrere in costosi errori. È essenziale fornire ininterrottamente nuove offerte per alimentare un più rapido avvicendamento di beni, con un intervallo di tempo sempre più breve tra il loro acquisto e il loro abbandono, seguito dalla sostituzione con beni ‘nuovi e migliori’; ed è essenziale anche per evitare una situazione in cui un’ulteriore delusione verso specifici beni si trasformi in una delusione generale verso una vita tutta intessuta e ricamata col filo del fervore consumistico sulla tela delle reti commerciali. La cultura assomiglia oggi a uno dei reparti di un mondo modellato come una specie di grande magazzino in cui si aggirano persone trasformate in puri e semplici consumatori. Come in ogni altro reparto di questo grande magazzino, i suoi scaffali straripano di cose attraenti che vengono cambiate ogni giorno, e le casse sono addobbate con le ultime promozioni, che svaniranno immediatamente dopo proprio come le novità invecchiate che pubblicizzano. I prodotti esposti sugli scaffali, al pari delle pubblicità alle casse, sono calcolati per suscitare capricci irrefrenabili, ma per loro natura momentanei (per dirla con la famosa frase di George Steiner, «fatti per avere il massimo impatto e un’istantanea obsolescenza»).
I venditori dei beni e gli autori delle pubblicità dipendono da un matrimonio dell’arte della seduzione con la spinta dei potenziali clienti a ricercare l’ammirazione dei loro pari e godere la sensazione della propria superiorità. Riassumendo: nella modernità liquida la cultura non ha un ‘volgo’ da illuminare ed elevare; ha, invece, clienti da sedurre. La seduzione, al contrario dell’illuminismo e della elevazione, non è un compito che si esaurisce una volta raggiunto l’obiettivo, che si realizza una volta per tutte, ma è un’attività con un orizzonte aperto. La funzione della cultura non è di soddisfare bisogni esistenti, ma di crearne di nuovi, pur mantenendo allo stesso tempo bisogni già radicati o permanentemente insoddisfatti. La sua principale preoccupazione è di impedire che prenda piede un senso di soddisfazione tra quelli che erano i suoi soggetti e operatori, trasformati ora in clienti, e soprattutto di contrastare una loro gratificazione perfetta, completa e definitiva, che non lascerebbe spazio ad ulteriori bisogni e capricci, nuovi e ancora non soddisfatti.
- Zygmunt Bauman