A PROPOSITO DI ... VINCENZO
AGNETTI
a cura di Vittoria Martini
Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce
Via Jacopo Ruffini 3 - Genova
dal 18/5/2013 al 14/7/2013
La serie di incursioni storiche che Villa Croce ha deciso di intraprendere per riscoprire le opere della collezione, prosegue con una mostra sull’opera di Vincenzo Agnetti. “Macchina drogata” (1969) diventa così un pretesto per riportare attenzione sul lavoro di questo artista troppo poco citato e valorizzato, ma che è stato uno dei pochi veri rappresentanti dell’arte concettuale italiana.
Prendendo spunto dall’opera della collezione, la mostra si concentra sulle opere prodotte dalla “Macchina drogata”, quindi sull’analisi del linguaggio, tema al centro della ricerca artistica di Agnetti. Attraverso la presentazione degli scritti, degli “Assiomi” e delle performance, la mostra propone un viaggio nell’opera di Agnetti.
Acuto osservatore della scena artistica contemporanea, Vincenzo Agnetti non è definibile semplicemente “artista”, perché fu “pittore, scultore, saggista, scrittore e teorico ma anche attore e soprattutto poeta”, come scrisse l’amico editore Vanni Scheiwiller.
Diplomatosi all’Accademia di Brera, alla fine degli anni ’50 decise di astenersi dalla produzione artistica per essere più presente nel contesto culturale e analizzarlo. I suoi testi critici sul lavoro di artisti d’avanguardia come Piero Manzoni e Enrico Castellani, restano fondamentali.
Dal 1962 al 1967 si trasferì in Argentina iniziando il cosiddetto periodo dell’ "arte-no", identificando l’arte nell’assenza di essa. Rientrato in Italia alla fine degli anni ‘60, Agnetti riprese l’attività artistica proponendo il fare arte come pura analisi di concetti, preposizioni e teoria operante.
E’ il rapporto tra significanti e significato il meccanismo che Agnetti è interessato a far saltare per mostrarne il funzionamento. Artista più mentale che visivo, Agnetti lavorò per sottrazione del significato, lasciandoci un corpus di opere difficile da definire, ma di grande coerenza. Il suo lavoro rigoroso e dichiaratamente poetico è mostrato nelle più importanti rassegne dell’epoca, dalla celebre Documenta del 1972 a due edizioni della Biennale di Venezia (1974, 1978).
a cura di Vittoria Martini
Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce
Via Jacopo Ruffini 3 - Genova
dal 18/5/2013 al 14/7/2013
La serie di incursioni storiche che Villa Croce ha deciso di intraprendere per riscoprire le opere della collezione, prosegue con una mostra sull’opera di Vincenzo Agnetti. “Macchina drogata” (1969) diventa così un pretesto per riportare attenzione sul lavoro di questo artista troppo poco citato e valorizzato, ma che è stato uno dei pochi veri rappresentanti dell’arte concettuale italiana.
Prendendo spunto dall’opera della collezione, la mostra si concentra sulle opere prodotte dalla “Macchina drogata”, quindi sull’analisi del linguaggio, tema al centro della ricerca artistica di Agnetti. Attraverso la presentazione degli scritti, degli “Assiomi” e delle performance, la mostra propone un viaggio nell’opera di Agnetti.
Acuto osservatore della scena artistica contemporanea, Vincenzo Agnetti non è definibile semplicemente “artista”, perché fu “pittore, scultore, saggista, scrittore e teorico ma anche attore e soprattutto poeta”, come scrisse l’amico editore Vanni Scheiwiller.
Diplomatosi all’Accademia di Brera, alla fine degli anni ’50 decise di astenersi dalla produzione artistica per essere più presente nel contesto culturale e analizzarlo. I suoi testi critici sul lavoro di artisti d’avanguardia come Piero Manzoni e Enrico Castellani, restano fondamentali.
Dal 1962 al 1967 si trasferì in Argentina iniziando il cosiddetto periodo dell’ "arte-no", identificando l’arte nell’assenza di essa. Rientrato in Italia alla fine degli anni ‘60, Agnetti riprese l’attività artistica proponendo il fare arte come pura analisi di concetti, preposizioni e teoria operante.
E’ il rapporto tra significanti e significato il meccanismo che Agnetti è interessato a far saltare per mostrarne il funzionamento. Artista più mentale che visivo, Agnetti lavorò per sottrazione del significato, lasciandoci un corpus di opere difficile da definire, ma di grande coerenza. Il suo lavoro rigoroso e dichiaratamente poetico è mostrato nelle più importanti rassegne dell’epoca, dalla celebre Documenta del 1972 a due edizioni della Biennale di Venezia (1974, 1978).