domenica 5 febbraio 2012

MARIO DEAGLIO: SI VEDE LA FINE DEL TUNNEL? - PALAZZO DUCALE, GENOVA 6/2/2012


MARIO DEAGLIO
SI VEDE LA FINE DEL TUNNEL?
L'Italia e l'Europa nella crisi globale
Palazzo Ducale - Sala del Maggior Consiglio
piazza Matteotti 9 - Genova
lunedì 6 febbraio 2012, h. 17,45

Gira per il mondo il dèmone dell’imprevedibilità
«Dèmone, ora sei libero. Prendi la direzione che vuoi». Collocare questa citazione, tratta dal terzo atto del Giulio Cesare che Shakespeare scrisse nel 1604, quale incipit di un Rapporto sull’economia globale che si presenta al lettore 407 anni più tardi potrà sembrare strano a molti. Il motivo di quest’apparente stranezza sta nel contesto: nella tragedia shakespeariana, queste parole sono pronunciate sottovoce da Marco Antonio al termine della sua celebre orazione ai funerali di Giulio Cesare che infiammò l’animo dei romani e li spinse a bruciare le case dei congiurati, ossia degli uccisori di Cesare. Con questo imprevisto capovolgimento di un esito che sembrava già scritto, ebbe inizio la lunga e dolorosa guerra civile, durata vent’anni e combattuta in tutto il Mediterraneo, alla fine della quale il dèmone abbatté lo stesso Marco Antonio, sconfitto dal suo alleato di allora, Ottaviano, che diventerà Cesare Augusto.
Una sequenza di avvenimenti ricca di colpi di scena e sostanzialmente imprevista dai contemporanei, quindi. E il lettore che ha da poco affrontato il secondo decennio del secondo millennio dell’era cristiana può constatare che l’imprevedibilità di andamenti economici, sviluppi politici e perfino di fenomeni naturali è particolarmente avvertibile nella realtà di oggi come lo era sia ai tempi di Shakespeare sia a quelli di Giulio Cesare e di Marco Antonio. Proprio a seguito di quest’imprevedibilità, la fiducia del lettore medio nei modelli degli economisti e, più in generale, nelle spiegazioni razionali della realtà è largamente diminuita negli ultimi anni.
Tale perdita di fiducia deriva dalla crisi economica in cui l’Occidente ricco ha cominciato a scivolare durante l’estate del 2007 e nella quale è definitivamente precipitato nel settembre 2008, trascinandosi dietro una buona parte dell’economia globale. Non solo la crisi non si è ancora risolta, ma se ne deve constatare l’estensione dall’economia alla società, alla politica, ai grandi equilibri politico-strategici internazionali. Una sua vittima illustre è la convinzione che la razionalità possa tener conto di tutte le variabili dei fenomeni umani e quindi mettere sotto controllo anche gli andamenti economici e politici.
Un sottile filone di irrazionalità continua invece a imperversare su mercati finanziari ancora barcollanti, a lungo sostenuti da un flusso imponente di miliardi di dollari iniettati nel sistema mondiale dalla Federal Reserve. Le economie reali dei paesi ricchi non riescono a riassorbire la disoccupazione e quasi mai raggiungono i livelli produttivi antecedenti la crisi. Il tutto sta rendendo sempre più difficile alle giovani generazioni la conquista di ampi orizzonti e favorisce giudizi decisamente irrazionali sulla tenuta del debito pubblico di paesi come gli Stati Uniti e l’Italia, sorti in maniera pressoché improvvisa a fronte di una situazione strutturalmente invariata.
Le gesta del dèmone nel corso del 2011 non si fermano qui. Nei paesi arabi della riva sud del Mediterraneo, ha fatto esplodere uno scontento latente e ignorato portandolo a livello di ebollizione, scuotendo, e talora spodestando, incartapecoriti regimi presidenziali e asfittiche monarchie secolari. Equilibri di mezzo secolo ne sono usciti turbati e sconvolti; ugualmente sconvolte risultano le prospettive energetiche e quelle politico-strategiche che hanno finora, bene o male, garantito pace e crescita economica. E dietro si intravedono scontenti e scompensi ancora più profondi nell’Africa subsahariana e in altre zone povere, alcune delle quali sono soggette a carestia mentre le scorte cerealicole mondiali sono prossime a un minimo storico.
Quasi negli stessi giorni, e quasi agli antipodi della riva sud del Mediterraneo, il dèmone ha scosso gli abissi sotto il Giappone, mettendo in ginocchio un paese già duramente provato da un ventennio di mancata crescita. E questo non solo – o non tanto – con un terremotomaremoto catastrofico, ma anche con un gravissimo incidente nucleare che riapre la discussione sugli scenari energetici del mondo, rivela la debolezza istituzionale e organizzativa di un grande paese e la vulnerabilità dei flussi produttivi dell’economia globale.
Mentre gli schemi della strategia e della politica estera sono sconvolti, si stanno modificando con una velocità impressionante i modi tradizionali di consumare, di stare assieme e di vivere. Gli scienziati sociali, economisti in testa, rimpiangono – o dovrebbero rimpiangere – la mancanza di una teoria unificata del comportamento umano in grado di collegare, di spiegare (e, ove possibile, di interpretare e prevedere) i legami tra malessere finanziario e malessere sociale, tra turbolenze finanziarie e crescente, generale inefficacia delle azioni di governo dell’economia. Il che non solo riduce il loro ruolo ma mette anche in dubbio le capacità delle società umane di conoscere i meccanismi di fondo che le governano, di essere davvero costruttrici delle proprie fortune. Li lascia nudi di fronte a una realtà in rapidissima e inaspettata evoluzione.

Alla ricerca di nuovi equilibri
Crisi a tutto tondo, quindi, nel senso greco di momento decisivo; crisi per la quale è difficile trovare spiegazioni soddisfacenti nei manuali delle varie scienze umane. La convinzione iniziale di poter risolvere tutto con poche misure tecniche di stabilizzazione dei mercati ha ormai ceduto il passo ad analisi più ponderate, al convincimento che la crisi sia complessa e multidimensionale e che, pertanto, non si possa ritornare a uno sviluppo stabile, in un contesto mondiale assestato, senza rimedi che, accanto a nuove regole finanziarie, prevedano specifici strumenti monetari destinati a sistemare le difficoltà di finanza pubblica di numerosi paesi. E sarebbe peregrino pensare a nuovi strumenti monetari senza nuovi equilibri di potere economico e politico; e immaginare nuovi equilibri di potere economico e politico senza prima aver analizzato i mutamenti nella distribuzione dei redditi e nella struttura sociale.
La crisi non ha naturalmente risparmiato un’Italia anziana, ancora solida ma sempre più in affanno; ne ha anzi posto in evidenza vecchi dubbi e nuove difficoltà. Se, a questo punto, dall’orizzonte mondiale si sposta l’attenzione sull’Italia se ne ricava qualche motivo di freddo conforto – per usare un’espressione inglese – e molti motivi di calda, cocente delusione. Freddo conforto in quanto l’eccezionalità della situazione italiana appare un po’ meno tale se proiettata sullo sfondo di una crisi mondiale; e calda, cocente delusione se si guarda al tempo perduto nel riconoscere il malessere e nell’applicare rimedi che oggi paiono tardivi e fors’anche inadeguati.
Nel venir meno delle chiavi interpretative generali, avanzate con troppa sicurezza negli ultimi decenni, appare appropriato prima di tutto descrivere, collegare i fatti tra loro, nella piena consapevolezza che nessuna descrizione, nessun collegamento può essere del tutto neutrale. È sempre più necessario mettere in evidenza elementi che si ritengono essenziali e che spesso, nell’addensamento delle notizie, non attirano sufficientemente l’attenzione. Questa metodologia, seguita nel presente Rapporto come nei quindici che l’hanno preceduto, può essere considerata un’interpretazione moderna del «conoscere per deliberare» che Luigi Einaudi proponeva ai suoi lettori nelle Prediche inutili. E a quanti, in Italia e altrove, volessero, allora come oggi, cercar di capire come va il mondo.

Che cosa ci aspetta dopo la tempesta

Ormai tutti i miei sortilegi non valgono più 
e posso contare solo sulle mie forze,
che non son più quelle di una volta…
Non lasciatemi su quest’isola spoglia…
ma scioglietemi dai miei legami.
(Shakespeare, La tempesta, Epilogo)

Un rapporto che inizia con una citazione da un’opera di Shakespeare può ben trovare la sua conclusione appropriata con un’altra citazione, tratta anch’essa da un’opera dello stesso autore, e precisamente da La tempesta, scritta quasi esattamente quattrocento anni fa. L’epigrafe riporta parzialmente le ultime parole pronunciate dal protagonista, il colto Prospero, duca di Milano, dotato di arti magiche, vittima di un complotto ed esiliato su un’isola lontana dove è servito controvoglia dal folletto Ariele e dove ha imprigionato il deforme Calibano, un mostro ridotto in schiavitù, figlio di una strega e di un diavolo. Per vendicarsi di chi l’ha esiliato, Prospero suscita una tempesta che fa naufragare sull’isola i suoi nemici, ma alla fine, grazie a una storia d’amore, fallisce l’obiettivo: Ariele e Calibano sono liberi e i naufraghi pronti a tornare alle loro terre.
Sono stati in molti, nell’ultimo secolo e mezzo, a voler scorgere ne La tempesta una metafora dei rapporti tra l’Europa, che proprio al tempo di Shakespeare cominciava ad affacciarsi su tutti i mari del mondo, e i paesi non europei oggetto della prima espansione coloniale. Prospero potrebbe rappresentare l’Occidente con le sue tecnologie (arti magiche); Calibano – l’assonanza di questo nome con quello dei «talebani» è un’impressionante coincidenza – i popoli assoggettati desiderosi di rivolta; Ariele chi, tra questi popoli, morde il freno senza rivoltarsi. E la sconfitta finale di Prospero potrebbe anche risultare foriera di un nuovo ordine mondiale.
La crisi che non passa rappresenta l’occasione per una metafora diversa (dopotutto, la crisi stessa è stata più volte definita una tempesta perfetta). Potrebbe essere letta come la sconfitta delle arti magiche della finanza: mentre chiudiamo questo Rapporto, in un tormentato mese di ottobre che ha visto affacciarsi l’eventualità di ulteriori, urgenti e massicci aiuti pubblici per salvare nuovamente alcuni grandi operatori internazionali, dopo soli tre anni, la capacità della finanza di imporsi a livello globale come fornitrice di certezze si è di molto indebolita.
La finanza viene contestata apertamente davanti ai suoi templi di Wall Street da cortei di cittadini, in prevalenza giovani, che si domandano perché le decisioni di sorreggere le banche in difficoltà vengono prese senza esitazioni mentre quelle per sorreggere categorie sociali in difficoltà e paesi in difficoltà sono soggette a innumerevoli perplessità e incertezze. Nel frattempo, governatori di banche centrali e ministri dell’economia sono costretti ad ammettere l’indebolimento di una ripresa che è stata intessuta più di buone intenzioni che di fatti concreti. E ad ammettere, per di più, di muoversi al buio, di non avere una ricetta magica, di essere ridotti a constatare, come il Prospero di Shakespeare, che le loro magie non sono in grado di portare fuori dalle secche le navicelle sconquassate della flotta economica mondiale.
Nelle vene dell’economia globale il sangue, cioè le risorse finanziarie, inaspettatamente circola con grande fatica, c’è il rischio di trombosi, ossia di blocchi della circolazione interbancaria, con la necrotizzazione del tessuto circostante (ossia delle banche che non riescono a procurarsi liquidità). L’ideale sarebbe il ricorso a un’operazione che consenta al sangue di fluire liberamente (leggi: nuove regole per le banche che separino i circuiti finanziari normali da quelli speculativi), ma il chirurgo esita e per intanto ricorre all’ossigeno (leggi: iniezioni di liquidità delle banche centrali).
Sempre in questo tempestoso mese di ottobre, i maggiori segnali di debolezza provengono dall’Europa. La debolezza della finanza si mescola qui alla debolezza delle istituzioni, per fornire un quadro decisamente problematico. Forse proprio all’Europa si possono riferire le battute finali de La tempesta, l’implorazione – che gli europei non riescono ancora a formulare – perché altri vengano in aiuto a chi, fino a poco tempo fa, con troppa sicurezza pensava di aver molto da insegnare e poco da apprendere, molte risorse finanziarie da investire mentre pochi sarebbero stati gli investimenti dei paesi emergenti in Europa. L’acquisizione indiana di gran parte dell’acciaio europeo e quella indiana e cinese di centinaia di piccole e medie imprese nei settori più vari mostrano quanto errate fossero queste previsioni di una superiorità riconfermata.
Ancora una volta il rischio di una perdurante instabilità mette a repentaglio gli equilibri mondiali, in quella che si avverte essere una crisi di sistema che ormai presenta a pieno titolo dimensioni politico-strategiche, sociali e culturali, oltre a quelle economiche. Tutte queste dimensioni dovranno diventare compatibili, le doghe di una botte sconquassata dovranno tornare a formare un contenitore efficiente, tenute assieme da nuovi cerchi, ossia nuove regole, in sostituzione di quelli vecchi e arrugginiti. Solo quando la nuova botte prenderà forma potremo dire che la crisi è passata.