giovedì 16 aprile 2015

CESARE VIEL: INFINITA RICOMPOSIZIONE - PINKSUMMER, GENOVA




CESARE VIEL
INFINITA RICOMPOSIZIONE
Pinksummer
Palazzo Ducale - Cortile Maggiore
piazza Matteotti 28r - Genova
17/4/2015 - 17/6/2015

Pinksummer: In questa terza personale da pinksummer “Infinita Ricomposizione”, il demone della scrittura che ha connotato, in forma pura o spuria, lunghezza e profondità del tuo percorso, sembra avere abbandonato il piano d’esperienza per il colore. L’uso che fai del colore e non a caso muovi dagli à plats a-mimetici di Matisse, è assimilabile all’uso che in altri piani empirici hai fatto dei concetti. Ricomposizione potrebbe anche significare riattivazione in questo caso. In “Che cos’è la filosofia” Gilles Deleuze e Félix Guattari dicono che il concetto è questione di articolazione, di ritaglio e di accostamento, premettendo che il concetto non è mai cosa semplice. Verrebbe da pensare che anche i colori primari (semplici?) non esistono se non dentro all’approssimazione/semplificazione del linguaggio. Perché hai deciso di partire da Matisse per intraprendere questo cammino linguistico/ sensoriale?

Cesare Viel: Mi sento di dire che Matisse in fondo è legato alla mia biografia. È stato il primo artista che ho casualmente scoperto a scuola, per conto mio, intorno ai 13 anni, e che mi ha realmente aperto un mondo: le avanguardie del Novecento. È dunque, prima di tutto forse anche un ritorno all’origine, e un fare i conti con questa “lunga storia d’amore”, rimasta in sospeso, in attesa di essere riattivata, eppure sempre sordamente lì sottotraccia. Ogni tanto Matisse riaffiorava nella mia mente e poi scompariva di nuovo, sovrastato da altri stimoli, altre differenti e apparentemente più aggiornate necessità. Adesso è arrivato il momento giusto. Ora la “macchina-Matisse”, con tutta la sua energia, la sua forza, si è messa in moto dentro di me, si è fatta ri-sentire. È un corpo in azione che dà movimento all’intero progetto. Costituisce un nuovo piano di composizione, anzi una serie infinita di più piani di composizione. Prima di tutto un sistema installativo e un procedimento performativo. Un divenire, con un ampio margine di libertà e di consapevole indeterminazione. Un nuovo sfondo illimitato, come già la “macchina-Matisse” era stata capace di fare, a suo modo all’inizio del secolo scorso. Ovviamente questo mio progetto da Pinksummer non è un semplice omaggio a, o un articolato insieme di citazioni formali più o meno filologiche. È di fatto una forte, nuova scommessa per me e la mia ricerca in atto, in movimento.
È un’infinita dispersione e ricomposizione. La scrittura in questa nuova mostra in effetti non è presente come immagine e pratica riconoscibile e consueta del mio lavoro, non poteva più esserci, ma è stata elaborata e trasformata in altro, è diventata diversamente funzionale all’intero progetto. Alcuni colori, certe forme, alcuni materiali, del tutto nuovi per me, si sono manifestati, articolati e accostati tra loro, su diversi effettivi piani di realtà. E tutto è diventato possibile.

P. Il linguaggio, anche quando i suoi bordi si fanno irregolari, lasciandoci intravedere altri mondi possibili, gli altri mondi, i mondi degli altri, non è come un ombrello che protegge dalla infinita frammentarietà del mondo? Il linguaggio non è un sistema che di necessità implica sempre la figura e lo sfondo, il soggetto e l’oggetto, il centro e il margine? Il nominare non è delimitare, per non lasciarsi sopraffare dalle cose, fosse anche solo da un rosso?

C.V. Sì, il linguaggio è una scatola degli attrezzi, uno strumento multi-funzionale che ci accompagna sempre, è dentro le nostre pratiche di vita, forma il nostro sfondo esistenziale, relazionale. Mi piace l’immagine del linguaggio come un ombrello, e aggiungo anche come uno sfondo. Il linguaggio è un po’ come il colore. A volte rivela, altre volte ricopre qualcosa. Come il colore, anche il linguaggio umano può essere contemporaneamente uno strumento, una possibilità di griglia, una risorsa, un’espressione, un limite, un desiderio, un’azione, un ostacolo o una connessione tra diverse realtà. Mi piace molto l’idea di farmi sopraffare da un rosso, così come da una frase o da un suono, e da una danza. Performare un rosso, un giallo, un verde, un nero, un bianco, e così via.

P. Una delle “Osservazioni sui colori” di Wittgenstein è così ” solo pochi uomini hanno mai visto il bianco puro. Allora la maggior parte degli uomini impiega la parola in modo scorretto? E come imparare l’uso corretto? Ha costruito un uso ideale conformandosi all’uso ordinario. E questo non vuol dire: un uso migliore, ma: un uso raffinato in una certa direzione, in cui qualcosa è stato portato all’estremo.
In una lettera su “La Dance” Matisse ha scritto di aver cercato: “per il cielo un bel blu, il più blu dei blu (la superficie è colorata fino alla saturazione, vale a dire fino a un punto in cui emerge finalmente il blu, l’idea del blu assoluto), e lo stesso vale per il verde della terra, per il vermiglio vibrante dei corpi”.
Sia Wittgenstein che Matisse sembrano dare per scontato che esistano quelli che potremmo definire gli ultra-colori e anche di un punto (determinato dall’uso estremo, la saturazione) in cui il colore si può trasformare in ultra-colore e dunque in qualcosa di ultrasensibile senza per questo diventare trascendente o metafisico. La dimensione ultrasensibile è un esercizio e una possibilità del presente, potrebbe essere definito un esercizio di delimitazione?

C.V. Portare la regola – una regola qualsiasi-, alle sue estreme conseguenze, al suo punto di resistenza, fino al suo possibile esaurimento. Questo punto si avvicina per me il più possibile a una sorta di silenzio, di pura presenza. Una forma di concentrazione vuota, come il respiro, può essere anche una visione, che però è un’esperienza concreta, reale, qui e ora. Non è un altrove metafisico, ma è più semplicemente un qualcosa – un esperimento – il cui confine viene portato all’estremo. Si tratta di una pratica del presente, un continuo esercizio di movimento e di attesa, un ritmo, una forma di consapevolezza. Il colore pieno, al massimo della sua saturazione, è un caso di questo tipo: un regola che viene spinta al suo grado massimo. Cosa c’è oltre? Cosa si può vedere o provare dopo? Al di là? Non sta a me rispondere, a me interessa mettere in atto un processo che si avvicini a toccare quel punto di sospensione, di attesa, di tensione.

P. Hume sosteneva che la realtà è risolta nella relazione che intercorre tra impressioni e idee e che nessun oggetto svela attraverso le qualità che rivela ai sensi le cause che può produrre o gli effetti che potrebbero sorgere, come l’acqua, dalla cui trasparenza o fluidità non si potrebbe desumere, senza l’esperienza, che possa produrre l’annegamento. Per Hume fuori dall’esperienza tutto è illazione e fantasticheria. Il colore, in questo senso, potrebbe essere interpretato come null’altro che una qualità delle cose, proprio come la trasparenza o la fluidità dell’acqua. Dentro alla pittura tuttavia, il colore smette di essere una qualità, dimostrando eventualmente che può sospingersi con agio a rappresentare la qualità della trasparenza dell’acqua senza possederne la trasparenza. E qui ci verrebbe di nuovo da riprendere un’altra osservazione di Wittgenstein a proposito di un vetro verde, della trasparenza e della pittura, per orientarci nell’altrove di una mostra in cui il colore e le forme di Matisse tratte indifferentemente da figure e sfondi, sono state riconvertite in grandi pezze di feltro, per essere maneggiate come fossero carte da gioco. Si dice che Matisse dalla nativa Piccardia avesse sussunto una grande conoscenza dei materiali tessili, tanto da realizzare da sé il grande mantello rosso dell’imperatore per la scena finale di “Le Chant du Rossignol” di Stravinskij per i balletti russi di Diaghilev. E quando si trovò a progettare a distanza le grandi decorazioni per la Fondazione Barnes scrisse: “Per comporre tutto ciò e ottenere qualcosa che vivesse, che cantasse, non potevo cercare che a tentoni, modificando senza sosta i miei settori di colori e i miei neri”.
Il feltro è una fibra senza trama e senza ordito, non è tessuto, è plasmato, il feltro è un manufatto arcaico risalente all’8/9000 a.C. che tanta storia ha anche nelle pratiche dell’arte concettuale. Ci puoi raccontare di “Infinita Ricomposizione”?

C. V. L’installazione graviterà principalmente su un piano orizzontale di composizione. Sul pavimento della galleria verranno disposti diversi feltri, di varie forme, dimensioni e colori, secondo un preciso, e continuamente rinnovato, ordine dinamico. Durante la mostra interverrò a spostare i feltri a pavimento riprendendo un’ evidente attitudine processuale. I feltri a terra saranno disposti in relazione tra loro per somiglianze e differenze, e formeranno liberi rimandi anche allo spazio della galleria. I feltri in mostra compongono a loro volta un riferimento alle forme-matrici di provenienza. Non me le sono inventate, ma sono state “ricalcate” e ritagliate da sfondi e figure accuratamente selezionate da opere di Matisse. Anche i colori sono stati scelti pensando a certi colori ricorrenti di Matisse. Naturalmente tutto l’impianto, le forme ritagliate, i colori, l’uso stesso del feltro come materiale di scena, formano un libero gioco delle parti. L’esperienza del caso, l’emozione dell’indeterminato, una sorta di geometria relazionale, sono ingredienti essenziali del progetto. Perché il feltro? Mi andava, oltre alla macchina-Matisse, di giocare anche con altri piani di riferimento e di composizione: la memoria di questo materiale nella storia dell’arte concettuale e performativa ormai del secondo Novecento, degli anni Sessanta-Settanta. Ovviamente mi riferisco a Beuys, ma soprattutto affiorano altri due nomi di artisti che condividono, in modi diversi, l’uso del feltro come elemento importante nelle loro pratiche: Robert Morris e Vincenzo Agnetti. Si viene così a comporre un frastagliato “gruppo di famiglia”. Un insieme di qualità diverse, e di esperienze che si sovrappongono, e si intersecano. Infine, ci sarà in questa mostra, come già ho accennato, anche una parte consistente di performatività in divenire, non del tutto prevista e preventivamente programmata. Sarà infatti anche una mostra del tempo attraverso il tempo. Durante l’inaugurazione, così come nei giorni successivi, anche senza preavviso, accadranno micro-eventi.
Alcuni potranno anche solo essere pensati e comunicati a voce, o sotto forma di appunti scritti e lasciati di passaggio nell’ufficio della galleria, o inviati via mail, anche a galleria chiusa, non per forza durante l’orario canonico di apertura. Durante l’inaugurazione ci sarà un’azione collettiva (eseguita da me insieme con alcuni altri performer) intorno ai feltri a pavimento. Talvolta avverrà uno spostamento dei feltri mediante un insieme di brevi mosse, un “comportamento di danza”, più che una danza vera e propria. Porterò in galleria, via via, nel corso del tempo, alcuni interventi sonori, qualche canzone, mie nuove frasi composte per l’occasione e dette, ripetute, destrutturate secondo un personale metodo di ricomposizione. Tracce audio che alla fine contribuiranno a formare un complessivo e frammentario tessuto sonoro della mostra, del tempo trascorso. Come una specie di “collage” di suoni provenienti da un angolo, o da dietro le spalle, che ti sorprende e ti spiazza.