domenica 1 gennaio 2012

CONCERTO DI CAPODANNO: CARMINA BURANA - TEATRO CARLO FELICE, GENOVA


CONCERTO DI CAPODANNO
diretto da FABIO LUISI
CARL ORFF: CARMINA BURANA
Teatro Carlo Felice
Galleria Siri - Genova
domenica 1 gennaio 2012, h. 15,30

Soprano: Eva Mei
Tenore: Marco Lazzara
Baritono: Roberto De Candia
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice
Maestro del Coro: Marco Balderi
Coro di voci bianche del Teatro Carlo Felice
Maestro del Coro di voci bianche: Gino Tanasini

Orff e la Fortuna
di Massimo Pastorelli
Se la Fortuna è una dea mutevole, che cresce e decresce come la luna, i Carmina Burana rappresentano certamente, per Carl Orff, il momento della Fortuna in fase di luna piena.
Ecco come Orff ricorda l’incontro casuale con il libro che gli avrebbe ispirato la più popolare composizione musicale del Novecento ‘classico’ insieme al Bolero di Ravel: “La Fortuna mi sorrise mettendomi tra le mani un catalogo di libri di seconda mano di Würzburg nel quale trovai un titolo che esercitò su di me un’attrazione dalla forza irresistibile: Carmina Burana, canzoni e poesie Latine e Tedesche da un manoscritto del XIII secolo proveniente da Benediktbeuern, edite da J. A. Schmeller.”
Una scarna indicazione bibliografica dietro cui si nascondeva il codice latino 4660 della Bayerische Staatbibliothek di Monaco, silloge di circa 300 poesie goliardiche e profane medievali in tardo latino, alto tedesco e francese antico, opera dei clerici vagantes, conservata fino al 1803 nella biblioteca dell’abbazia di Benediktbeuern sulle Alpi bavaresi (nessuno è mai riuscito a scoprire come vi finì).
Ordinato immediatamente, il libro è recapitato a Orff in un giorno che la Fortuna, sempre lei, sembra aver scelto apposta, dato il contenuto pagano e mondano dei testi, al limite della blasfemia: “Ricevetti il libro il Giovedì Santo del 1934, una data memorabile per me.”
Il primo sguardo alle pagine del libro è una folgorazione: “Aprendolo mi trovai subito davanti, riprodotta sul frontespizio, la famosissima immagine della ‘Fortuna con la sua ruota’, e sotto di essa i versi: O Fortuna | velut luna | statu variabilis.” E come sempre quando un compositore si imbatte nel testo che stava cercando da tutta la vita senza sapere di cercarlo (Orff aveva già 39 anni), l’immaginazione si mette in moto già alla prima lettura: “L’immagine e le parole si impossessarono di me e un nuovo lavoro, un lavoro teatrale con cori cantati e danzanti, mi venne in mente all’istante seguendo semplicemente le illustrazioni del testo.
Contemporaneamente tracciai lo schizzo del primo coro, ‘O Fortuna’. Dopo una notte insonne in cui quasi mi smarrii dentro l’immenso volume, un secondo coro, ‘Fortuna plango vulnera’, prese forma, e la mattina di Pasqua un terzo, ‘Ecce gratum’, fu messo su carta.”
La scelta dei testi e la forma dell’opera che questa scelta avrebbe determinato furono lunghe, faticose e piene di ripensamenti. Ma, alla fine, ne emerse un polittico in tre parti dai contenuti molti chiari.
Ai due cori introduttivi “O Fortuna” e “Fortuna plango vulnera”,denuncia e lamento per l’instabilità del destino umano (“Così Fortunagira la sua ruota io scendo sminuito un altro in alto sale”),secondo una visione democratica della sorte tipicamente medievale,segue un inno alla primavera.
I brani di questa prima parte, PrimoVere, mettono in fila una serie di significati simbolici primaverivilila cui origine poetica si perde nella notte dei tempi: la primavera come ritorno alla vita dopo i rigori dell’inverno, la primavera come allegoria di rinascita, prima di tutto del desiderio, la primavera come trionfo del mondo pagano contadino e della sua istintualità (la parentesi in tedesco Uf dem anger [Sul prato]).
Questa celebrazione del godimento della vita prende una piega quasi rabelaisiana nella seconda parte, In taberna, un inno all’osteria, dove “più di nulla ci curiamo”, allo sperpero del gioco e al piacere del vino come unici mezzi per dimenticare il destino morituro di un mondo che non conosce astemi: “beve l’esule e l’ignoto beve il bimbo ed il canuto beve il vescovo e il decano beve il fratello con la sorella beve la mamma e la nonnarella beve questa, beve quello bevono in cento, bevono in mille.”
Ma tutte le sbornie hanno un dopo sbornia, e la dimenticanza è relativa: le bevute di questa taverna non sono solo euforiche e spensierate, sono anche cariche di bile per il fatto di essere, comunque, fatti “di materia leggiera e inconsistente… simile a foglia con cui giocano i venti” (“Estuans interius”).
Per quanto ubriachi, lo viene a rammentare concretamente, con la sua stessa voce, un cigno che un tempo viveva felice su un lago ma che, ora, arrostisce sullo spiedo (è il celebre canto tenorile in falsetto “Olim lacus colueram”).
Nella terza ed ultima parte, Cour d’amours, è di nuovo l’amore, come in Primo Vere, l’antidoto possibile alla vanitas vanitatum, rappresentato, talvolta, in modi meno goliardici che non nei testi precedenti, più tradizionalmente amorosi: “C’era una fanciulla| come una rosella: | il riso le splendeva | la bocca le fioriva” (“Stetit puella), “Dolcissimo! A te tutta mi dono!” (“Dulcissime”).
Ma è proprio al culmine della felicità, quando l’amore sta per trionfare in forma di apparizione estatica (“Ave bellissima, gemma preziosa, | decoro delle vergini, vergine gloriosa”), che c’è il colpo di teatro negativo: il coro “Ave Formosissima”, che avrebbe tutte le carte in regola testuali e musicali per aspirare al ruolo di glorioso coro conclusivo, si trasforma bruscamente nel coro iniziale, riaffermando la Fortuna, e non l’Amore, come imperatrix mundi.
Dal codice medioevale dei Carmina Burana, contenente di tutto, poesie sulle crociate, ludi drammatico-religiosi, parodie dei versetti dei Vangeli che inveiscono contro la curia romana e la decadenza degli studi, Orff, insomma, ha isolato un itinerario morale ben preciso: dalla Fortuna come Signora delle vicende terrene, al tentativo di sfuggirle attraverso le droghe del vino e dell’amore, alla constatazione che sfuggirle, ahimè, è impossibile.